GARBIN-UN VENTO CHE SPOSTA RETORICHE di SERENA VESTENE

 


 

Il periodo dalle pandemenza ha portato le menti e le anime più spiccate a voli oltre le barriere, con risultati che stanno uscendo mano mano alla luce e che si stanno svelando con prepotenza espressiva. In questo caso ci sono parole che suonano, un idioma che spezza catene in cantilene chioggiotte. Forse davvero occorre tornare alla propria lingua madre per recuperare solo le radici e spogliarsi della retorica, dire le cose di pancia e con il cuore, piuttosto che ascoltare spesso intellettualismi rarefatti. O così ci porta a pensare l’ultimo lavoro discografico di Carlo De Bei, anche poeta, ma soprattutto musicista, cantautore, indiscutibilmente nato con le corde di chitarra nell’anima e tanta carica ribelle nelle vene, di quella bella, sana. Chi non lo conosce può informarsi circa la sua lunga e interessante carriera consultando qualsiasi motore di ricerca. Ma chi lo vuole veramente scoprire, credo possa soffermarsi su questi due biglietti da visita molto eloquenti che fanno parte del suo ultimo album. Partiamo dalla pandemenza appunto: “Te da fastidio che sia svegio/ ma cossa vuostu fare/ se ho l’abitudine de ragionare/ in mezo a sto delirio/ ho fatto un patto co mi fioi/ che no se muore ma/ no se se arende mai” (Ti dà fastidio che sia sveglio/ ma cosa ci vuoi fare/ se ho l’abitudine di ragionare/ in mezzo a ‘sto delirio/ ho fatto un patto con i miei figli/ che non si muore mai/ che non ci si arrende mai). E la sua abitudine di ragionare prosegue oltre la lucidità della lettura del periodo delle restrizioni, della violazione dei diritti di libertà individuale, per fare un monito a non cedere mai ai soprusi bensì andare avanti a testa alta, come promessa d’amore a se stessi e ai propri amori; per arrivare a toccare il tema dell’attuale guerra con toccante franchezza, semplicità e onestà di fondo, riuscendo a bypassare la retorica del “siamo tutti fratelli” riempiendolo con un concetto fondamentale di vero pathos empatico. Sarà l’immagine evocata, sarà l’uso del dialetto, ma il brano “Cortelo” del De Bei ci riporta proprio lì, tra i civili, tra la gente mandata a morire senza un senso che non sia un disegno di poteri enormi e di disegni che poco o nulla hanno a che fare con i racconti di guerra che ci arrivano dai mezzi di (dis)-informazione di massa. “Ho inguà el cortelo per copare mio fradelo/ (...) ho inguà el cortelo sensa nianca savere/ da che parte che stevo e per chi che morivo/ in te na man el fero e la croxe da staltra (Ho affilato il coltello per uccidere mio fratello/ (…) ho affilato il coltello senza nemmeno sapere/ quale era la mia parte e per chi andavo a morire/ in una mano il ferro e una croce nell’altra). Sì, si torna a parlare di guerra come gente del popolo, perché è anche quella la gente che muore, quella che non sa chiedersi e non sa scrivere “lettere piene d’amore./ Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita” ma che alla vita si tiene con il ferro e la croce, con un’ arma affilata e la fede, quella che gli hanno messo in mano, e quella alla quale gli hanno fatto credere. La potenza sta nel linguaggio musicale della parola insieme alla musica, nel canto con il suono, cosicché i contenuti riescono a colpire diretti come la poesia sfonda la ratio. Tutto si fa suggestione familiare, sangue conosciuto, avvicinamento del fronte. Tutto diventa presente, “qui e ora” perché ogni guerra parte da un sé che ci sta a quel gioco al massacro, che affila il coltello per ammazzare un fratello, per poi ascoltare una voce dentro. “Garbin”, questo vento chioggiotto, è tutto da ascoltare. Carlo De Bei un artista da conoscere.



 

 

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