POESIA DI IVAN CRICO ("SERMO RUSTICUS" ARCAICO VENETO BISIAC DEL FVG)









Con questa poesia inedita di Ivan Crico apriamo di nuovo le porte, dopo il vernacolo pisano di Piero Nissim, alla poesia dialettale. Ci sembra importante e significativo in quest’ora segnata dall’indignazione e dalla resistenza, stringere un’alleanza fra una comunità che cerca di preservare le proprie radici linguistiche e il nostro laboratorio di ricerca poetica che spinge le proprie libere fronde contro il becero e assordante sistema di comunicazione elaborato dalla dittatura sanitaria. L’italiano che voleva nel suo processo di assimilazione e di cancellazione fare ‘tabula rasa’ dei dialetti, si è trasformato in un mostro espressivo che non ammette pensieri e impennate contrari alla sua logica di controllo. Tutto deve essere un continuo talk show televisivo, volgare, ripetitivo, offensivo, omologato. Bisogna opporsi e lavorare nell’ombra, allora, costruendo una lingua creativa non vuota e velleitaria, ma innestata sulle tradizioni più o meno illustri dei nostri territori. Ivan Crico è un nuovo tipo di monaco amanuense o di botanico che prodiga cure quotidiane per non fare estinguere, invece di piante ormai rare, parole, espressioni, costruzioni linguistiche del proprio dialetto che è il bisiàc goriziano. È un idioma di confini aperti, “inarginabile” – per usare un termine del suo componimento – come la foce del suo fiume tutelare, l’Isonzo. Questi versi ci ricordano per assonanza l’antico provenzale dei trovatori, il loro aspro e insieme elegante timbro e troviamo che esprimano benissimo il contatto fra l’uomo passeggero e la terra dei suoi passi quotidiani. Ma quando leggi assurde ci impediscono di sfiatare e di volare via, anche nel rischio del viaggio, come possono gli uccelli migratori? Quanto nella versione originale che nella sua autotraduzione, Crico espone il rischio che il paesaggio amato possa diventare un cortile carcerario dove trascorrere un’opprimente ora d’aria. La previsione è amara e la Legge dell’uomo sembra lasciare spazio solo alle sue macerie, “la scena all’avvento della polvere”. Questo è il momento di non cedere alla disperazione, ma di porre domande all’assurdo e provare a fare in modo che “il polline della dimenticanza”, possa far crescere frutti-testimonianze di una nuova coscienza e di una nuova relazione con il tutto.

(Paolo Gera)

 

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