POESIA IN VENEZIANO DI FABIA GHENZOVICH





Di una lingua altamente eufonica ed elegante”
Sul veneziano come lingua di poesia.

Guida insostituibile e preziosa per iniziarci ai misteri della lingua veneziana - e godere, al tempo stesso, della sua sconfinata ricchezza fonico/espressiva - il grande "Dizionario Veneziano, della lingua e della cultura popolare nel XVI secolo" a cura di Manlio Cortellazzo, è un libro di più di 1500 pagine, disseminate da una quantità impressionante di citazioni e rimandi, frutto di un paziente lavoro di decenni negli archivi e nelle biblioteche. Una ricerca scientifica di altissimo livello ma mai disgiunta da una partecipe adesione emotiva alle vicende umane che questi segni traghettano, da quei secoli lontani, fino alle rive del nostro presente. Emerge difatti, sfogliando queste pagine, l'immagine di una Venezia che è, al tempo stesso, gelosa custode (come sempre sarà) del proprio passato, fucina ribollente di nuove idee e porto aperto su cui attraccano, dai mari e dalle terre più remote, bastimenti carichi non solo di mercanzie, opere d'arte, ma anche di parole, che sono parole arabe o fiorentine, greche o tedesche, dalmate o spagnole. Venezia, come New York o Londra oggi, accoglie da sempre nel suo grembo d'acqua e luce le voci del mondo, se ne lascia compenetrare senza mai alla fine - com'è accaduto anche in queste città - rinunciare a quella che è stata la sua prima antichissima voce.

Si è dovuto però stranamente attendere fino ad una decina d'anni fa, in una delle più famose città del pianeta, per vedere pubblicata quest'opera di riscoperta e valorizzazione di uno straordinario patrimonio linguistico, che ha il merito anche di mostrarci un linguaggio sotto una luce diversa da quello descritto nelle pagine del celebre vocabolario del Boerio. Sorte toccata, con lieve anticipo, anche ad un’altra fondamentale operazione di divulgazione del grande patrimonio letterario veneziano, ancor oggi poco noto all’infuori degli ambienti accademici, come l’edizione in due volumi di tutte le liriche del nobile Maffio Venier. Colto ed originale nobiluomo, sicuramente il più grande poeta del Cinquecento veneziano ed uno dei massimi della letteratura italiana, è, purtroppo, un autore ancora tutto da scoprire. Ragioni di falso pudore, ricordava sempre Cortellazzo prefando l'edizione critica a cura di Attilio Carminati, hanno limitato finora la ricerca e l’esame dei testi, sì da condizionare l’approfondimento dei valori in esso contenuti. Il bersaglio principale delle sue poesie è il magnificato Amore petrarchesco, colto soprattutto nelle sue prerogative sinistre e pericolose. Ma Venier lancia i suoi strali, ricorrendo perfino all’insulto più volgare, impiegando una lingua altamente eufonica ed elegante, come quella parlata a Venezia dal Doge fino all’ultimo dei suoi sudditi, di cui l’aristocrazia forse più del popolo nutriva l’ambizione di averla propria e gestirla a suo piacimento. Una lingua in cui si possono, e Venier lo ha dimostrato, raggiungere risultati impensati.

Il veneziano difatti - lingua resa celebre in tutto il mondo dal Baffo, dal Goldoni, impiegata addirittura dal Casanova per tradurre l’Iliade - è anche, fin dalle origini, lingua di poesia, poesia a livelli altissimi, che, anche negli ultimi decenni, è riuscita sempre a rinnovarsi, aprire nuovi orizzonti di senso, come nelle memorabili raccolte dell’indimenticato pittore e poeta Eugenio Tomiolo, scomparso non molti anni fa.

Oggi, con “Ti la vardi contro luse”, di Fabia Ghenzovich la grande stagione lirica in lingua veneziana continua a donarci un'ulteriore inaspettata fioritura.

Una profonda pietas, unita ad una bonaria dissacrante trasgressione (con levità ripercorrendo a tratti quella linea antipetrarchesca, di cui si diceva dianzi, inaugurata dal Calmo e dal Venier), ci porta immediatamente a perderci - per cercare di ritrovarci - in un labirinto di calli o nel “non tempo”, come direbbe il grande Biagio Marin, del mare. Mare che è, sempre, qui, anche e sopratutto grande “mare dell'essere”.

Anche nei più minuti episodi di cronaca o nelle figure popolari descritte in modo più diretto, sembra spalancarsi tra i versi un abisso acquatico e atemporale che li sottrae a questo mondo effimero, transitorio, per proiettarli in una dimensione universale. Nascita e morte, il popolo dei vivi e quello dei morti, chi abita un luogo e chi ( il “foresto”) lo attraversa velocemente, si mescolano allora e si sfanno come dentro un gorgo di luce abbagliante in cui tutto “come che 'l compare dispare” per poi riapparire, sotto altre forme, senza sosta. Il tutto amplificato da un uso sapiente di una lingua, si direbbe, forgiata nel corso dei secoli da una trasparente fucina di incessanti maree, onde, riflessi.

Liriche intense, sincere ed originali, che possono dunque trovare, nella grande storia della poesia veneziana, una più che degna collocazione. Che, sopratutto, ci spostano per un momento dalla nostra dimensione quotidiana per farci trascinare via da una vorticosa corrente visionaria. Complice una Venezia sdoppiata, tra sogno e realtà. Dove "alto" e "basso", spiritualità ed eros - attraverso un uso sapiente di fascinose forme sintattiche e sapidi aggettivi tratti dal parlato veneziano ancor oggi impiegato – miracolosamente si tendono la mano, camminano assieme. Di volta in volta, come sbucando da una calle all'altra, siamo portati a scoprire dettagli di cui non ci eravamo mai accorti prima, scorci inediti. Nuovi impensati passi dell'infinita messa in scena di quel canovaccio misterioso - ogni giorno cancellato per essere reinventato e riscritto - che è il nostro vivere. Con i fasti e le ceneri di una festa sempre sognata e sempre passata che “scampa via, da drio / sbeletà de 'na bauta, co' tuti / i so zoghi spetacolari, i pastròci, / le smargiassàe e le so secrete / strigarìe d'amor”.

Ivan Crico 

(postfazione a Se ti la vardi contro luse (Supernova, 2018)


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