DAL ROMANZO "TERRAFELICE" DI ILARIA PALOMBA


 

Terrafelice


Capitolo 30


Diana mi passa la lanterna. È buio, riesco a illuminare solo brandelli di corpi, un piede, una mano, un pene. Faccio oscillare la luce e mi accorgo che i brandelli sono mozzati. Mi volgo indietro, Diana, più impavida di me, fa slalom tra i lacerti.

«Loro sono ancora vivi» dice.

«Chi sono loro?»

«I dimezzati».

Il nitore della lanterna illumina una stanza che ha l’aria di una sala d’aspetto, diciotto persone aspettano senza guardare, illumino gli occhi ma sono stati cavati. Alcune di queste persone non hanno un piede, una mano, delle dita, altri si torcono con una ferita sanguinolenta tra le gambe. Sono per lo più anziani e aspettano.

«Perché gli hanno fatto questo?» illumino i volti senza occhi.

«È arrivato» dice un uomo privo di arti. «È arrivato il filosofo».

Sembra usare questo termine in accezione derisoria.

«Non troverai qui l’Uomo. Non troverai che resti».

«Perché?» dico.

L’essere che ha parlato sogghigna con voce gracile, esaltata.

«Non siamo forse nella culla dell’abisso?»

«Che significa?»

«La nostra esistenza è scaduta. Il male ci ha deturpati. Ciascuno di noi ha sacrificato un pezzo di sé per la scienza».

Inorridisco. «Come sarebbe per la scienza? E di quale male parli?»

«Del Signor Tempo. Nessuno ha il potere di fare all’altro qualcosa che l’altro non desideri o in qualche modo non conceda, il male ha colpito coloro che non apprezzavano la vita».

«La tua visione è deprecabile. Esiste l’ignoranza, da parte vostra, e la manipolazione, da parte del potere tecnico-scientifico».

Ride di nuovo con la sua voce arrochita.

«Che cos’è il potere?»

«Il potere è chi decide che un’esistenza debba scadere».

«Che sciocco umanista, Diogene. Non hai compreso ancora molte cose. L’esistenza scade da sé, non la si può arrestare fintanto che non si possa arrestare il tempo. Noi abbiamo un solo sovrano, il Signor Tempo, lui falcia ciò che non è più utilizzabile».

«Chi è? Presentatemelo, avrei qualche domanda da fargli».

Alle nostre spalle si leva un vento di tramontana secco e freddo, un uomo con una rete gravida di pesci, gobbo e cieco, ha ancora gli occhi ma sono bianchi e non guardano in questo mondo. Cammina trascinando la rete e tossendo di tanto in tanto, una tosse cavernosa, antica, che viene da molto lontano. Avvicino la lanterna per illuminare la rete e vedo qualcosa che vorrei subito dimenticare. Non sono pesci ma bulbi oculari, centinaia, migliaia di occhi spalancati e immoti.

«Sei tu che hai cavato gli occhi a questi signori?» dico.

Diana mi stringe un polso, avvicina le mani al mio orecchio sinistro, dice qualcosa che non comprendo. Il gobbo si volta, come volesse guardarmi, ma dal bianco delle sue iridi viene solo gelo.

«Ho preso i loro occhi perché non volevano più guardare».

«Cosa? Dimmelo, vecchio mostro».

Il gobbo rivolge le iridi bianche al cielo e le labbra in sei pieghe di rughe lasciano andare un barbuglio sussurrato.

«Non volevano vedere il futuro poiché era manifestamente funesto, voi non lo sapete ma la vita è diventata marcescente. Loro si sono rifugiati nell’attesa. E io ho raccolto i resti. Non sono cieco, non del tutto, io vedo l’insieme».

«Che significa l’insieme?»

«Io vedo la tua morte simultaneamente a questo istante».

«E dimmi, Signor Tempo, come morirò?»

Il gobbo continua a trascinare i bulbi nella rete e poi ne estrae uno particolarmente piccolo, dall’iride verde foglia, vi guarda dentro e sbuffa, tediato.

«Tu morirai in una strada desolata dell’undicesima dimensione».

«Che diavolerie vai blaterando? Cos’è l’undicesima dimensione?»

«Vedi, Diogene, stai cercando qualcosa che non esiste, tu sei qui perché non vedi la fine. Io so che l’umano è trapassato e lo sanno anche questi signori a cui ho cavato gli occhi».

«Non ti bastavano gli occhi, vedo che hai amputato anche altro».

«Un organo non funzionante è sintomo di una persona scaduta. Qualcuno studia il modo per evitarlo. Non sono esseri umani quelli che ci sopravvivono».

«E cosa? Cyborg? Ma i cyborg hanno pur sempre qualcosa di umano».

«Cyborg è solo un modo umano per chiamare le creature dell’abisso. Senza nulla togliere alla tua visione, le creature dell’abisso possono essere simultaneamente nelle undici dimensioni. Non soffrono, non gioiscono, la loro esperienza è pura, separata dalle sensazioni. Se una creatura dell’abisso decide di morire muore senza soffrire oppure cambia dimensione. Nessuna creatura dell’abisso riconosce l’umano come suo simile. Questi signori hanno sacrificato le loro disfunzioni all’abisso».

Il gobbo cammina ancora trascinando la rete e i bulbi oculari s’irradiano quando li illumino, avviluppati tra le maglie strette della rete blu. L’uomo entra nel buio e la bora smette di soffiare.


Tratto dal romanzo auto pubblicato in rete Terrafelice, disponibile su Romanzi online sia per iscritto che letto integralmente dall’autrice su YouTube: https://romanzionlinefree.blogspot.com/2021/11/terrafelice.html

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