FISSANDO IN VOLTO GLI AUTORI: ANGELO TONELLI - CON LA PRESENZA DI IVAN CRICO (APPROFONDIMENTI SUI TEMI TRATTATI)





L’inattuale attualità della Sapienza

ANGELO TONELLI


Le nostre radici o, come si usa dire, il nostro DNA culturale, affondano in quella grandiosa stagione della Grecia, e soprattutto della nostra Magna Grecia, in cui fiorì la Sapienza ellenica, non disgiunta da quella orientale, nelle culminazioni di  coloro che Giorgio Colli definì “filosofi sovrumani”, da Pitagora a Parmenide a Empedocle e, nelle coste della Ionia, Eraclito.  Costoro erano  stabilmente centrati in stati di coscienza unitaria, ovvero oceanica, e li testimoniavano e comunicavano alla loro cerchia di iniziati e, per osmosi, alla pólis. Associavano alla coltivazione dell’interiorità e al radicamento nel profondo, alla maniera dei meditanti orientali, l’impegno nella vita consociata: il Sapiente era anche politico, il misticismo si coniugava con l’azione civile.

      Questo modello è venuto meno, e va recuperato, perché di questi tempi la vicenda collettiva degli umani viene agita da forze economiche e politiche insane, che vorrebbero spingere in direzione di una forma di governance mondialista fondata sull’espansione della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale al fine di un progressivo e sempre crescente controllo sui viventi.

    Va recuperato per contrapporre allo svuotamento animico e noetico proprio dello schizantropo (perché scisso da Anima per effetto della predominanza raziotecnica) previsto dai programmi dell’élite mondialista, l’uomo e la donna integri, unificati nella propria interiorità e con il cosmo antropico e naturale.

     In questo consiste l’inattuale attualità della Sapienza, e del mito, che a questa unità, integrità e consapevolezza  possono condurci tuttora, perché da essi ricaviamo uno sguardo non contaminato sulla vita individuale e collettiva, e sui grandi temi della paura, della tecnica, della morte, della conoscenza e della politica.

     A questo sguardo ci conducono i miti di Dedalo e Icaro, Prometeo, del Serse di Eschilo, di Perseo e la Gorgone, di Edipo; e le parole sapienziali di Eraclito, Parmenide, Empedocle, e le esperienze civili e politiche di Socrate, martire della Verità, di Platone, Zenone, Melisso.

     Ne ricaveremo uno sguardo aperto e indomito sulla  paura e sulla morte, l’invito a subordinare la tecnica alla Sapienza e alla Natura, e la testimonianza della  possibilità di una vita politica illuminata dalla luce noetica, ovvero da quel galleggiante che, come ci dice Plutarco, è sempre in quiete e sovrasta i mari agitati della nostra esperienza psichica e esistenziale di umani e che, se ci teniamo saldamente ancorati a esso, ci consente di attraversare la vita con consapevolezza e stabile serenità, senza recare danno a individui e collettività, per paura, avidità o spirito di prevaricazione. E di affinare le qualità superiori della psiche, ovvero consapevolezza, solidarietà, creatività.

   E ancora percorreremo la strada che porta a Eleusi, sulle tracce di Persefone che entra in contatto con la dimensione ctonia, attraverso il matrimonio con Hades, il dio degli Inferi, e ci conduce alla necessità della katábasis, il descensus ad Inferos necessario per poter accedere all’anábasis, l’ascensione che dischiude alla visione suprema, l’epopteía, della Luce dell’Uno; e ci aggireremo per le plaghe misteriose dell’Oltrevita, nella geografia del Paese dei Morti che morti non sono, accompagnati dalle parole delle Lamine d’oro orfiche, incise nell’oro sottile e sigillate nei sepolcri o nelle ceneri degli iniziati, parole scritte che alla maniera di quelle sussurrate all’orecchio del cadavere nel Libro tibetano dei Morti, guidavano l’iniziato nel tragitto post mortem.

      E accompagneremo le danze estatiche delle baccanti, le sciamane di Dioniso, il dio dell’ebbrezza e della contemplazione, che alla maniera di Shiva, e della psicologia del profondo junghiana, ci conduce all’equilibrio e alla sophrosýne attraverso la trasgressione e il confronto che le nostre pulsioni più estreme al ritmo del flauto e del tamburo, e alla luce dello specchio di consapevolezza.

     E rintracceremo molto Oriente nel nostro Occidente quando ci avvicineremo alle parole di Empedocle e di Platone sulla reincarnazione, specialmente nel mito di Er e di Adrastea, o quando incontreremo la figura di Ermotimo, il reincarnato di Clazomene, così simile ai tulku tibetani; così anche troviamo molto Oriente upanishadico e taoista in Parmenide e in Eraclito, e possiamo rintracciare un comune sostrato sciamanico occidentale-orientale, e forme  di pratica spirituale nei Pitagorici (il silenzio, l’incubazione nelle grotte, l’anámnesis, la respirazione diaframmatica) che ci fanno intendere come anche la Sapienza greca radicasse in concrete esperienze psicocorporee, alla maniera delle corrispettive pratiche d’Oriente.

     Tutto ciò è un fiume meraviglioso di conoscenza e soprattutto di stati di coscienza illuminati che può “spartirsi nelle nostre viscere”, per dirla con Empedocle, e fornirci

la forza e la salda centratura necessarie per attraversare la vita senza essere inghiottiti dai flutti delle pulsioni, delle passioni e delle peripezie distruttive e perturbanti che l’incarnazione umana implica, al fuoco sempre acceso dell’amore per la vita di cui la morte è il volto nascosto.

     Qui si forgia l’homo novus, consapevole, unificato, armonico, di cui viene proposto come modello antropologico Eraclito, il Sapiente che consacrò il suo libro Sull’Origine nel tempio di Artemide a Efeso, e che dalla distanza dei millenni ci parla con voce insieme distaccata e complice per condurci sulla via della Sapienza.

     L’ homo novus è partigiano luminoso e irriducibile nella battaglia che oggi culmina contro l’intreccio snaturato e snaturante di tecnologia digitale, avidità economica e cieca volontà di potenza di un’ élite pronta a vendere la Madre Terra e i suoi figli in cambio di Potere e Denaro, in  un delirio patetico di controllo algoritmico su individui ridotti a sudditi-zombies, e di un’ immortalità corporea raggiungibile attraverso l’alterazione cibernetica dei corpi, in un grottesco scimmiottamento degli Dei a prezzo dell’Anima e della libertà.

     Sono i programmi distopici e transumanistici di reset globale messi in campo dalle élite, che trovano espressione nelle parole di Klaus Schwab, Presidente del World Economic Forum di Davos, e in esempi di realtà transumanistiche già  effettive, disseminate un po’ dovunque nel pianeta umano, dai Monaci robot alle singolarità  tecnologiche agli esperimenti di Elon Mask.

      Due visioni del mondo e dell’umanità si stanno scontrando, di cui una è sostenuta da smisurati poteri economici e mediatici, che le consegnano una capacità di coinvolgimento e persuasione mai prima d’ora dispiegati nel corso della storia. 

     Il trionfo della visione transumanistica segnerebbe una regressione profonda dell’Homo Sapiens a livelli di disumanizzazione  e disanimazione non auspicabili, e ne comprometterebbe l’evoluzione verso livelli più alti di consapevolezza, solidarietà e libertà. 

     Io intendo offrire un piccolo contributo a una battaglia di civiltà e di spiritualità destinata a acuirsi nei prossimi lustri, per contrastare, compensandola, l’ipertrofia raziotecnica di una prospettiva transumanistica che sarà altrimenti foriera di sofferenza e infelicità per gli umani.

     “Se non speri l’insperabile non lo scoprirai, perché è chiuso alla ricerca e a esso non conduce nessuna strada”.

(Eraclito 22B18 DK)




Signor mete la to man sora de la mia”

Di streghe, guaritori e benandanti

Ivan Crico

Una denuncia anonima perviene al Sant’Uffizio di Udine durante i primi mesi del 1583. L’accusato è Toffolo di Buri, cioè da Buttrio, pastore dimorante a Pieris, paese al di là dell’Isonzo ma all’epoca subordinato alla giurisdizione spirituale della diocesi di Aquileia. Il delatore, probabilmente un abitante dello stesso villaggio, viene protetto dall’anonimato forse per la paura di eventuali ritorsioni. Dalla documentazione processuale emerge un dato rilevante: il denunciante conosceva molto bene le attività da benandante dell’«armentaro», altrimenti non avrebbe mai potuto descrivere in modo così particolareggiato i presunti viaggi extracorporei di Toffolo.

Quest’ultimo viene così descritto: «afferma di essere benandante, et che per ispatio d’anni ventotto in circa è necessitato di andare ogni quattro tempora in compagnia d’altri benandanti a combattere contra li strigoni et streghe (lasciando il corpo sul letto), in ispirito, ma vestito di quelli istessi habiti che suole portare di giorno».

Sulla base della testimonianza raccolta i rappresentanti del Sant’Uffizio di Udine vedono in lui un eretico da interrogare e in caso giudicare. Dopo aver esaminato la denuncia, si riuniscono il 18 marzo 1583, inviando al podestà veneto di Monfalcone la richiesta di arresto e di invio a Udine dell’imputato. Nonostante l’incarcerazione del benandante fosse avvenuta, il podestà non spedisce il Toffolo a Udine, in quanto mancava la scorta per l’operazione. Dopo aver atteso invano l’invio di uomini da parte del Sant’Uffizio o del patriarca, il podestà di Monfalcone libera l’imputato. Nel frattempo sul caso Toffolo di Buri cala il silenzio, finché tre anni dopo, nel novembre 1586, l’inquisitore di Monfalcone si imbatte sui documenti processuali del 1583 e decide di recarsi a Monfalcone, per investigare più a fondo. Dopo aver inoltrato la citazione in giudizio di fronte al Sant’Uffizio, a cui non riceverà alcuna risposta, l’inquisitore invia un suo notaio a Pieris, dove si scopre che Toffolo si era ormai dileguato dal villaggio da molto tempo.

Si parlava un giorno, dopo pranzato, di come venivano un tempo coltivate le viti. Mio suocero, che ha iniziato a lavorare da contadino all’età di tre anni, portando al pascolo le mucche, ad un certo punto mi dice, come se fosse la cosa più ovvia del mondo: “Al vin no se pol tocarlo, far travasi co le vide le se move, se le mena o le xe su la sfiuridura, parvìa che ’l vin xe ’l fio de la vida e lu ta la bote, anca se ’l xe lontan, al xe ligà a la mare e, po, no ’l vien bon ( Il vino non bisogna toccarlo, fare travasi quando le viti mettono le gemme o fioriscono, perchè il vino è figlio della vite e lui nella botte, anche se si trova lontano, è legato alla madre e, così, non viene buono).”

Il vino nella botte e la vite nel campo, distanti chilometri, secondo il nostro pensiero attuale, non dovrebbero avere più alcun collegamento tra loro ma, evidentemente, sono esistite e, in parte, continuano ad esistere ancora altre, forse più profonde visioni della realtà. Nel mondo contadino arcaico, come del resto ancora accade presso i cosidetti popoli “primitivi”, ogni minimo aspetto della realtà era unito da fortissimi legami (legami di tipo animico, legati alle energie sottili) con tutto il resto, per cui non è pensabile intervenire su qualcosa senza che questo non vada necessariamente a modificare prima o poi, nel bene o nel male, qualcos’altro. Questo atteggiamento portava l’uomo ad avere un profondo rispetto nei confronti della realtà, ad agire sempre con estrema cautela, cosciente, molto più di quanto oggi forse accade, che dalle sue scelte anche apparentemente più insignificanti dipendeva il futuro suo e dei suoi discendenti. D’altra parte, diventa quasi ovvio vivere questo senso di rispetto nei confronti di una Natura non inanimata, non ridotta a puro fenomeno, come oramai la maggioranza di noi siamo o forse, sarebbe meglio dire, siamo stati portati a percepirla. Nel mondo contadino difatti, come mi raccontava anni fa il mio amico e informatore Beniamino Braida parlandomi di quanto gli raccontava suo nonno, esistevano osservazioni sulla natura memori di un pensiero che ci appare di tipo quasi animistico, quando ancora l'uomo vedeva nei fenomeni naturali la personificazione di entità spirituali. La bora quindi diventava un essere femminile che andava a dissetarsi, durante le pause di vento, al largo, nel Golfo di Trieste; la terra un'entità dormiente che lo sfruttamento dell'uomo poteva far impazzire e così di seguito, in un susseguirsi di immagini poetiche che la nostra civiltà odierna, a differenza di quei poveri ma illuminati contadini, poco più che analfabeti, difficilmente arriva più a concepire.

Ma per riuscire ad interpretarle, per agire in armonia con queste forze misteriose che governavano la Natura, oppure per sottometterle ed impiegarle con finalità anche non benefiche, come nel caso delle streghe, c’era la necessità di persone che, per predestinazione o conoscenza trasmessa, fossero in grado di entrare in contatto con esse. Da qui tutta una serie di figure (che ora emergono dall’ombra in cui sono state confinate prima da una Chiesa oppressiva e poi da un mondo esaltato da miti, non sempre così limpidi, di progresso scientifico), che a partire dai processi, ma anche nei racconti popolari, poesie e testimonianze orali, testimoniano come, anche nella Bisiacarìa, il rapporto con l’altra faccia del visibile, come diceva Rilke, nel corso dei secoli non si sia mai interotto.

Certamente le figure che più hanno colpito l’immaginazione popolare, sono state quelle delle streghe; e questo forse anche, almeno in parte, per il fatto che la Chiesa di un tempo tendeva a trasformare ogni figura alternativa, ogni figura dedita al bene ma non allineata con i suoi precetti, proprio nel suo contrario, nella strega o stregone: e cioè figure che al potere religioso si contrapponevano dall’esterno, ma in questo senso anche lo legittimavano, gli conferivano dignità e autorevolezza. I benandanti, che in piena autonomia, secondo i loro racconti, potevano uscire dal corpo e compiere viaggi nell’al di là per entrare in contatto con il mondo dei morti invece, medium in grado di presentire avvenimenti non ancora accaduti, guaritori che dalla visione dell’aura potevano individuare malattie e curarle - pur essendo fedeli alle parole del Cristo - tendevano comunque a metterlo in discussione dall’interno, questo potere, metterne in luce i limiti e forse, soprattutto, a mantenere in vita tutte quelle credenze, come ad esempio la trasmigrazione dell’anima (che aveva probabilmente caratterizzato anche il cristianesimo dei primi secoli), che sono state presto rigettate da una Chiesa sempre più secolarizzata e desiderosa di rafforzare il proprio potere e controllo sulla vita civile.

Non sono note testimonianze letterarie nella mia terra, la cosidetta Bisiacarìa, scritte prima dell’Ottocento e, per farsi un’idea di come poteva essere il linguaggio e la vita prima di quel tempo, dobbiamo necessariamente rifarci ad atti giuridici o notarili. Tra questi, la testimonianza più antica di una qualche estensione finora conosciuta in loco, riguardante i benandanti, si trova in un atto dell’archivio del notaio Antonio Cosolo, che qui riportiamo nella trascrizione di Sivio Domini:

“Addì otto zugno 1699 - Monfalcone -

Costituita appo me Nodaro e sottoscritti testimoni Elena del fu Anzolo Paronito di questa Terra (città murata) e volendo disaggravar la propria di Lei coscienza, obbligata dal suo Padre confessore, rende con questo atto manifesto di non essere “striga” ma “bellandante” e di aver più volte guarito, con la formola antiga: “Fogo, fogo domestego, para via il salvadego”, et stechi de vida accensi, tanti mali corporali di piaghe e foghi senza mancar de respeto alla Santa Religion Cattolica e senza scandolo alcuno.

Presenti li Signori Giov. Andrea Rizzo et Mirandola Mirandola di questa Terra. Testi.”

Quasi due secoli più tardi, tra il 1880 e il 1884, invece, Domenico Venturini scrisse le sue interessanti memorie d’infanzia in cui è ancora testimoniata nel monfalconese in quel tempo la figura del benandante chiamato, però, in questo caso “cavalcante”:

“Un giorno di luglio, dopo aver girato per il Carso, sotto i raggi implacabili del sole estivo (...) rincasai accusando forti dolori di capo. Si trattava, evidentemente, d’un caso benigno d’insolazione. A notte fonda il cavalcante entrò nella mia camera. Una lucernetta romana ad olio, a un solo lucignolo, rompeva appena il buio (...). In quel semitenebrore vedevo muoversi confusamente alcune ombre: il nonno, la nonna e zia Rosa, affacendati a disporre sul piano del comò tutto ciò che occoreva alla felice riuscita del sacro rito: acqua benedetta con il rispettivo ramoscello d’olivo, erbe miracolose, un crocifisso, una catinella piena d’acqua fresca attinta appena in quell’attimo da un pozzo vicino. Fui fatto sedere presso il comò. Il cavalcante mi gettò sulle spalle un mezzo lenzuolo, sicchè sembrava che si apprestasse a tagliarmi i capelli: infatti, impugnate le forbici e chiestomi dove più forte mi dolesse, e avendoglielo io indicato, il gaglioffo prese a radermi in tondo sul cocuzzolo della testa come se dovesse prepararmi a celebrare la prima messa. Poi mi strofinò energicamente la parte malata con quelle tali erbe miracolose e, immersa mezza mano nell’acqua santa, me la premette, per qualche secondo sul punto infermo, recitando a voce bassa non so che formula... antidiabolica (...) Indi chiesto ed ottenuto un collabrodo, mi annaffiò con questo la zucca martoriata (...) Il giorno seguente, fosse effetto della doccia benefica, o che l’insolazione avesse voluto andarsene da sola, potevo considerarmi quasi guarito. E la fama del cavalcante salì fino alle più remote costellazioni”.

Credenze che altrove costituiscono i fondamenti di religioni antichissime, in Occidente sono state ridotte a mere stregonerie, superstizioni, ridicole invenzioni tanto che, per tornare ai benandanti, nel giro di pochi anni il loro ricordo si annacquò a tal punto per cui, come ricorda Maurizio Puntin, “una tradizione positiva venne considerata anche nell’ambiente popolare una pratica assimilabile a quelle stregonesche”.

L’eterna lotta tra bene e male, come nei racconti dei benandanti che vanno a “combattere contra li strigoni et streghe”, caratterizza gran parte delle narrazioni in dialetto bisiàc che trattano di questi argomenti. Nel primo racconto in bisiàc a noi noto, raccolto a Sagrado nel 1901 e intitolato “La striga brusada viva”, dove c’è anche una significativa rappresentazione di un Sabba, troviamo la figura di una strega malvagia che inizia alle arti magiche la nipotina fin quando il figlio, con l’aiuto di un prete, decide di porre fine ai suoi misfatti:

“Una diambara de veciata la iera cognosuda de tutt el paese par una striga patentada parché se la rivava ad ora a toccar qualchidun i restava subito strigati, che la ghe ni ga fatti anca morir, e tutti quanti i scampava de ela come il Diaul dell'aqua santa; cun dutt questo sempre la dinegava. So fiole le ga benedì l'ora che le xe sposade, perchè no le podeva più sopportarla de tant tremenda che la iera, e il fio se ga cavà fora de casa anca lui, e quando che la è restà sola ghe ga dimandà a 'sto ultimo una putella che la ghe fassi compagnia, lui che ga 'cordà giusto per il rispetto de mare.

Una sera, che la iera dormir con so nezza, se ga alzà dal letto verso mezzanotte e la stava per andar via, quando che la putella dismissiada la ga comincià a pianzar che no la sta sola, che la ga paura. Allora so nonna ghe dise:- Ben, vien anche ti con mi, allora; ma no sta verzar bocca a nessun.- No ghe digo a nessun, no nonna; e dove andemo? - Vien cun mi ti e tasi cidina ve, che se te parla qualcossa te taio la lingua. La à menà in cusina, e lì se ga messo a portar via la cinisa del fogoler e toccando no so in cossa ghe ga onzù i polsi e le tempie e dopo ciapada palla man le xe sparide tutte due pal cammin. La putella mo, che se capisce, come tutti i putei, che no 'i xe boni de tegnir scondù niente, ghe ga ditto pochi giorni dopo a so pare che una notte la xe andada fora con so nonna, come che la ghe ga fatto, che le xè scampade pal camin, e rivade in tun prà grando, grando, dove che iera tante siore che le saltava, le ballava, le se contava storie, le zugava, ecc. ecc. e anca la nona cun lore, e po' no la sa in che maniera in tun moment le se ga trovà a casa. Il puar omo al se ga mess pensar a 'ste parole, e 'l xe restà convint che so mare iera striga. Qualche giorno dopo la ghe dise ancora: - Tata mi son bona de far vegnir la tempesta, ve!- Cos te dise che te se bona de far vegnir la tempesta? - Si, si, tata, porteme fora una mastella de acqua e te vedarà.- Ma ben se te la fa vegnir dove che no la fa danno - Dove che te vol, anca' sol tal curtiu. Al ghe porta fora una mastella de acqua e in tun moment de bel seren che iera, vien su un nul fiss, fiss; la ciol do bachetuzze de sanguanella e la comincia a batter l'acqua con ste bacchette in crose e zò la tenpesta, e sta striguzza domanda a so pare: - Tata, te la vol grossa? Dopo la vigniva come patate a pien curtiu e fora nianca un spell. So pare, tutto spaurì, ghe ga cigà: basta, basta! - dal ditt al fatt, xe tornà seren. Subito, lui xe andà contarghe al prete il fatt e questo ghe ga rispost: - Eh, benedetto, tutta la causa xe vostra mare! - E cossa varia de far? - ma se volé ver pase in casa, e no ver altri malanni, bisogna che la brusé, e alla putella taiarghe la ponta del dé pizzul! - Eh! Signor me perdone! Brusar me mare? - Ma mi ve digo pel vostro ben... Sto puar omo al se ga persuadù che nol pol far in altra maniera, e andà d'accordo cui cugnadi sovi de buttarla tal forno ben caldo e brusarla. In quel giorno che i veva de far la cosa, lui per no vedere che ghe fava anca diol, al xe andà via de casa. E cussì i ga fatto, dopo preparà pulito il forno; i gà mandà ciamar la vecia che la xe capitada subito, e appena entrada, vedendo so nora che la misciava sulla vintula che i veva preparà prima, e il forno caldo, la ghe domanda: - Cossa véu de far el pan? - e disendo ste parole, la se ga vicinà al forno. Allora so zeneri i xe saltadi fora de dove che i era scondudi, apposta i la ciapa e i la butta dentro; dopo i ga serà ben ben la busa, e pontada cun legno, e cussì urlando e cigando del dolor, la ga finì de far mal in sto mondo. Dopo qualche temp, guarida il dè, so pare al ghe dise:- Dài, famme vegnir un poca de tempesta! La ga fatt ella come l'altra volta, ma tempesta no ghe ni xe vignuda.” Un altro racconto di streghe, anche questa volta ambientato a Sagrado, fu scritto negli anni ’70 del secolo scorso da Giordano Vittori, detto “Jambo”, uno dei curatori del “Vocabolario fraseologico del dialetto bisiàc. Come ricordava Domini in una sua nota, probabilmente si tratta della rielaborazione di racconti che aveva udito nella sua prima giovinezza, nel paese in cui era nato nel 1919. In questo caso una guaritrice, una “strolecanta”, tenta di salvare due bambini vittime dei sortilegi di una strega che li vuol far morire. Iera 'na note senza luna. Le stéle cricava speciandose a miari ta l'aqua de l'Isonz, squasi ferma. Poc prima 'l sol, 'ndando a monte, al véa piturà de fogo i àrzini e le boschete de la parte de Viles. Ogni tant la zuita, svolando sul feral del ponte, la cïulava bramandoghe la morte ai Se gradini. Iera i ultimi ani de l'Otozento e Checo poster, dopo finì al so lavor, al se véa fermà como ogni sera, pa 'l so quartin, a lì de la Tranquila, rente la strada del ponte. In parte, al caval de Sior Checo de la Posta sufiava ta 'l sachet de la vena oramai svodo. Checo era sentà rente la porta cun so zarman Michel, Giovanin Novel e Toni Barzanai. In quel la te vien drento duta sburida la Marita Barisela: - Checo, i putei sta mal, i ne more! Core ciamar calchidun!L'omo pianta i so amizi e 'l core in casa dei Mónighi a ciamar la Úcia che, oltre a far la strolecanta, la guariva duti i mai. I la trova che la tazava fassine dogna 'l fogolar. - Úcia benedeta, core casa mia! La Marieta xe como mata. I me putei xe par murir! Dopo che Checo ghe ga spiegà dut, la ghe dise: - No ocore che viengo, omo. Dighe a la Marieta che la varde cossa che xe ta i cussini dei putei. Mi credo che ta quel de Virgilio la trovarà un par de calzeti maron cu'la ponta bianca e ta quel de la tutela la trovarà 'na corona de piume, magari cussinò! Pa la fia no xe gnente de far, ma tentemo: mete la corona e i calzeti ta un sac e va su la crosara de la Bruma, fermete su la piera del canton e bate a duta forza al sac cu'l martel! Se no dovesse zovar, la putela murirà, ma 'l fio sarà salvo. E ste tenti che la prima parsona che vignarà butarghe l'aquasanta a la tutela, sarà la striga che i li ga strigadi. A, Checo, Checo! Tant che te véu dit de metarte le mudande roverse, quan che te te ga sposà! Des te ga le cunseguenze. Meno mal che ghe go mitù mi a Virgilio un ramet de ulìu ta le fasse. E bona che no te ga sposà de zóbia, se no te muriva anca 'l putel. Sto por omo al core casa e la Marita la trova dut come che véa dit la Úcia. Alora i se ciapa su e i core su la Bruma cu'l sac su la schena. Su la crosara ta 'l zito de la note, la Marieta bateva cu'l martel al sac e lontan, ta i canpi, Checo contava i colpi. - Basta, basta, basta! - zigava le strighe intant che la femena bateva 'l sac de rabiosa. Tornadi casa, al putel iera salvo, ma la fia la xe morta subito dopo. La pora Marita véa pena vistù la morta, la ghe véa pena mitù 'na corona de fiori su la testa e la ghe fassava le man cu'i nastri de seda, no véa nanca scuminzià sonar le canpane che se presenta a butarghe l'aquasanta 'na femena 'nguluzada t'un sial negro: iera la Tusita.

Questa crudeltà nei confronti dei bambini, la ritroviamo del resto nel già citato processo a Tofulo di Buri, quando si racconta “ Che sono alcune streghe che con l’arte del Diavolo mangiano le carni dei fanciulli piccoli, ma non si vede alcun segno che siino state mangiate, ma quelle creature vanno a poco a poco mancando, che se ne moiono remanendogli solamente la pelle et gli ossi; che una volta viste una donna, la quale haveva apparecchiato il foco per abbrucciare una creaturina poco avanti nata, et esso riprendendola disse: << Ah, che voitu fare? >>, et essa all’hora lasciata la creatura si convertì in una gatta et scampò via.”

La casa della “jata” (forma uguale allo scomparso dialetto tergestino per dire “gatta”), nel dialetto del vicino paese di San Martino del Carso, così legato nella storia e anche nella lingua alla Bisiacarìa, indicava come abbiamo detto dianzi la casa di una donna malvagia, una strega appunto. Ugualmente nelle narrazioni orali, in parte ancora inedite, raccolte da Sergio Vittori negli ultimi quarant’anni, sempre tra Sagrado ed il comune di Fogliano-Redipuglia, troviamo anche qui la figura della strega che si trasforma in gatto per spiare le persone:

“I veci de Foian, xe ani anorum, i conteva che a Polàz la steva ’na strania femena... Calchidun al diseva che la era ’na striga, antri, invezi, che la era sòlache un fià matuzéta. Zuan, un só vizìn de casa, al conteva che’na note, bel che ’l steva tornando casa de l’ostaria, passando par de là, al veva vidù che la era doventada un gat. Co Zuan al conteva sta storia, de ciaro i ghe credeva, parchè a sto omo ghe piaseva bévar calche got de massa. De là un poc de tenp, la Mariuta (che la era la muiér de Toni Monego) la era bastanza ’nbilada parvìa che duta la zente de Polàz i ghe parleva drìo e la saveva duti i afari sovi. Cussì xe nassù che un zorno, intant che la steva missiando la calgera, la era tavavanada saldo de un gat che al cuntinueva a sgnaularghe ta i pié. Stufa de quel insìstar, la ciapa la mèscula cu’la polenta sbroénta e la ghe dà ’na mata paca pa’la napa. La bestia, duta sburida, cu’n salt la scanpa t’un védar e no védar fora del barcon sgnaulando desperada. Passa la sera, passa la note... dut in pase, ma ta ’l diman de matina, vidù che le sele de aqua le era voide, la Mariuta la ciol al bigòl e, dopo verle cargade su, la va vers la ponpa. Pa’la strada, como che la passa visavì del logo de quela femena strania che tanti i penseva che la fusse ’na striga, la sinte i sgrisulóni vignirghe zò pa’la schena: zirandose la à vidù che la veva ’l naso sbrovà! Lora la à capì parvìa de ché duta la zente de Polàz la saveva senpre i afari de la só faméa. E, dopo de quela volta, gnissun gat al xe mai ’ndà drento casa sova!”

Per finire, la lotta contro esseri malvagi, l’arte di proteggere i raccolti, ritornano anche nell’ultima testimonianza scritta a noi nota della presenza di benandanti nel monfalconese. Valeria Calligaris Pacor, poco prima della scomparsa, in un’intervista alla studiosa Adriana Miceu, così raccontava alcuni episodi della vita del marito che aveva, appunto, fama di guaritore-benandante:

“Tuti i nostri vizinanti i gaveva quela:

- Siora Valeria, siora Valeria, al xe casa sior Gigi che sta vignindo su al tenp! - Se ghe respondevo:

- No, al xe lavorar in Cantier! - Lora i zigava - Oh, pori noi! -

- No stè bazilar che lu al fa al segno anca stando in Cantier, vardando Staranzan! - li tranquilizavo.

Lori i iera sicuri che se me marì al segnava i nulazi che i vigniva vanti, al tenporal no ’l varìe fat dani! Gigi al podeva far sto ritual, che un vec’ al ghe véa insegnà a far co’l iera putel, parchè al iera un primogenito. Al ciapava un cortel, fat fora de ’na ponta de falza, e al segnava la stela de Salamon de la banda del burlaz disendo anca preghiere che mi parò no go mai pudù sintir. (...)

Ta ’l nostro ort vigniva senpre la verdura e i pomi più bei de quei dei vizinanti. E tut parchè Gigi, co al semenava, co ’l incalmava al diseva de le preghiere che parò gnanca noi de casa no gavemo mai pudù sintir. (...) Gigi, de zòvin, al viveva a Saganzian, parchè so papà al iera ’ndà cuc dei Frandolic (Francovic). A là i recolti i vigniva beloni senza malatie e senza tanpesta. - Ta la tera dei Frandolic, al caga al diau! - la diseva la zente. Iera tere miraculose, zircondade de aqua. Ben, dev’éssar sta calcossa: comno spiegarse se no: parché la tanpesta in zerti ani la vigniva e la distruzeva tut; sol ta la tera dei frandolic i recolti i se salvava? Mi credo che iera parvìa dei segni de Gigi (...).

Gigi al cigniva la ponta de falza sora ’l comudin parchè al diseva che via pa’la note al vigniva al Vìncul a tormentarlo. Sto Vìncul al diseva che i lo sofegava. Quando che lo gaveva no ’l podeva parlar e ’l rantolava. (...) Gigi al credeva che ’l Vìncul al sarìe ’na parsona trista e aposta al cigniva al cortel, l’instes che ’l doprava par segnar al tenp, ta ’l comudin. Pena che ’l Vìncul al se destacava de lu, Gigi al tirava al cortel par coparlo, inveze al se inpiantava ta la porta. Al sintiva che ’l Vìncul al ’ndava via sol se al ghe tirava sto cortel. La porta la iera piena de busi, gavemo tant sufrì par sto Vìncul.”

Questa tradizione di guaritori, come ricordava Domini, non si è comunque mai interrotta in Bisiacarìa anche se oggi come un tempo, chi opera disinteressatamente, preferisce di solito aiutare il prossimo senza mettersi in mostra. Anche perché queste facoltà sono sentite come doni ricevuti per grazia divina, da ridonare agli altri senza nulla chiedere, non come doti personali. Difatti, nella cura dell’“herpes zoster”, denominato in dialetto “fogo salvadego”, il rito inizio con il segno della croce e la formula molto significativa:

Mete Signor la to man

sora de la mia.

Questi sono solo alcuni esempi, tra i molti che sono stati raccolti in questi anni in Bisiacaria, di un mondo da riscoprire e analizzare a fondo. Da riscoprire, credo, anche per poter oggi meglio confrontarsi con culture di altri paesi che, certo con maggior libertà della nostra, hanno avuto modo di approfondire questi temi arrivando ad affiancarli a volte, almeno per quel che riguarda le tecniche curative, alla scienza ufficiale.

Le parole dei benandanti sono porte che si aprono su orizzonti tenuti per lungo tempo nascosti, orizzonti che sono stati cercati altrove e che invece, anche qui, dove non li credevamo possibili, possono tornare a illuminarci, illuminare il mare profondo del nostro essere.


Saggio incluso nel volume:

  • ANGELINI, Tullio (a cura di) (2006). Di prodigi segreti: Presenze e visioni di benandanti nel monfalconese. Monfalcone: More Music; [Gradisca d'Isonzo]: Centro Leopoldo Gasparini, con saggi di Luigi Gervaso, Giancarlo Toniutti, da Gian Paolo Gri, Ivan Crico, Franco Fabbro, Maurizio Puntin

Bibliografia dei testi e degli studi principali consultati

BATTISTI C., Ricerche di linguistica veneta, in "Studi Goriziani" volXXX, 1961 pp. 11-84.

BOERIO G. Dizionario del dialetto veneziano (II ed. 1856, rist. anastatica nel 1971).

BOZZI C. L., Sagrado e la sua storia, 1969.

BOZZI C. L., Memorie e cronache del Friuli orientale (1890-1920), 1970, pp. 186-188.

CORBATTO A., Vocabolario della parlata gradese, Edizioni della Laguna, 1995.

CORTELLAZZO M., La parlata gradese, Atti del Seminario "La cultura veneta nel goriziano", Gorizia, Grafica Goriziana ,1993.

COSSAR R. M., Usanze popolari d'un comune della Provincia di Trieste, estratto dall' "Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane", a. XVI, g I-II, 1941.

DE VETTA A., Studi sul dialetto bisiacco con particolare riguardo al lessico, tesi dattiloscritta di Padova, 1952-1953.

DEL MISSIER S., Un dialetto in evoluzione, .in "Il Territorio" n. 8, Monfalcone,1983, pp. 71-82.

DEL MISSIER S. Note sul vocabolario fraseologico del dialetto "bisiàc", in "Bisiacaria", N° 3, Monfalcone 1985.

DOMINI S. -MINIUSSI A. Breve discorso sulla parola "bisiàc", in "Il Territorio", N° 1, Gradisca 1978, pp. 15-23.

DOMINI S., Staranzano. Storia, società e cultura nell’ambiente del territorio monfalconese, ( II edizione), edito a cura della Cassa rurale ed Artigiana di Staranzano, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1987.

DOMINI S., Un poeta in 'bisiàc' tra la fine del Settecento e il primo Ottocento, in "Bisiacaria" 1989, pp. 9-15.

DOMINI S., FULIZIO A., MINIUSSI A., (a cura di), Giordano Vittori (Jambo) nel I anniversario della morte. Biografia commemorativa e scelta di scritti, 1975.

DOMINI S., FULIZIO A., MINIUSSI A., VITTORI G., Vocabolario fraseologico del dialetto "bisiàc", Bologna 1985.

DORIA M., Contributo sulle origini della Bisiacaria. Alcune ipotesi sul periodo protostorico di questo territorio, <<Il Territorio>> 11, 1984.

DORIA M., Il vocabolario del dialetto "bisiàc" (recensione), in "Il Territorio", N° 15, Monfalcone 1985.

DORIA M., Friulanismi lessicali nel dialetto bisiacco in "Studi ladini", 1986.

DORIA M. Grande dizionario del Dialetto Triestino, 1991, pp. 76 e 853.

FRANCESCATO G., Motivi per lo studio del bisiaco, in "Il Territorio", N° 5, Mariano del Friuli 1980, pp. 29-36.

FRANCESCATO G., Quando il bisiaco si fa vocabolario, in "Il Territorio", N° 15, Monfalcone 1985.

FRAU G., I dialetti del Friuli, Pacini, Udine, Società Filologica Friulana, 1984.

FRAU G., Vocabolario fraseologico del dialetto "bisiàc" (recensione), in "Studi Goriziani", vol. LXIII, Gorizia 1986.

MAINATI G., I dialoghi piacevoli in dialetto vernacolo triestino, edizione critica a cura di Mario Doria, Edizioni "Italo Svevo", Trieste, 1972.

MARINUCCI M - DEL BELLO F., Il vocabolario <<bisiàc>>. Un contributo di straordinario interesse per la nostra storia, .in <<Il Territorio>> n. 14, Monfalcone,1985, pp. 89 - 91.

MINIUSSI A. Veneto e Bisiacaria. Note a "Libera nos a malo" di Luigi Meneghello, in "Nuova Iniziativa Isontina" n° 3, 1991, pp. 35-39.

MINIUSSI P. M., Bisiacarìa e cultura, in "Nuova Iniziativa Isontina" n° 91, 1998, pp. 30-32.

MINIUSSI P. M. Per una definizione di identità. Il II congresso dell'Associazione culturale bisiaca, in "Nuova Iniziativa Isontina" n° 2, 1991, pp. 35-38.

NACCARI R., BOSCOLO G. Vocabolario del dialetto chioggiotto, Editrice Charis, Dolo, 1982.

PELLEGRINI G. B., Noterelle linguistiche <<bisiacche>>, in Romanica et Slavia Adriatica, Hamburg (Buske) 1987.

PELLIS U., Il sonziaco, Trieste 1910-11 (estratto dall'Annuario del Ginnasio di Capodistria).

PELLIS U. IL friulano dei colli goriziani e della pianura, in GORTANI M. e altri, Gorizia con le vallate dell'Isonzo e del Vipacco (Guida del Friuli), 1930, p. 55.

PELLIS U., Atlante linguistico italiano, in "Bollettino ALI" I e II, Udine 1933-36, III, Torino 1942.

PUNTIN M., Le seime bisiache ovvero un ricordo di tradizioni contadine slave medievali della terra di Monfalcone in "Il Territorio" n° 13/14, Nuova serie, giugno-dicembre 2000, pp. 57-59.

PUNTIN M., Sclavoni nell'Oltreisonzo medievale, in Slovenia, un vicino da scoprire, SFF, Udine 2003.

PUNTIN M., Toponomastica storica del Territorio di Monfalcone e del comune moderno di Sagrado, Centro Isontino di Ricerca e Documentazione Storica e Sociale "Leopoldo Gasparini", Gorizia 2003. ROSAMANI E., Vocabolario giuliano, Cappelli 1958.

SEMI F., Il dialetto veneto dall'VIII al XX secolo: cento testi storici, Liviana Editrice, Padova, 1988.

STROILI V., Studi sul dialetto bisiacco (Fonetica e morfologia) tesi dattiloscritta di Padova 1952-1953.

ZAMBONI A., Una varietà veneta marginale: il bisiacco, in "Cultura veneta nel goriziano", Atti del Seminario "La cultura veneta nel goriziano", Gorizia, Grafica Goriziana 1993.

ZUDINI D. - DORSI P., Dizionario del dialetto muglisano, Udine, Casamassima Editore, 1981.























Di lingue e segni segreti

di Ivan Crico





Le eredità sconosciute

Linguaggi nel territorio di Monfalcone

al tempo dei benandanti



Come si parlava nel monfalconese nei primi secoli dello scorso millennio, quale poteva essere la lingua impiegata dai benandanti che abitavano in queste zone? Una domanda, questa, per nulla semplice


come lingua d'uso corrente, probabilmente fino ai primi anni del Cinquecento per sparire definitivamente, al massimo, verso il 1650.

Alcuni particolari termini di questa parlata sono stati comunque inglobati all’interno del dialetto bisiàc ( come “nóu” per “nuovo” o “ou” per “uovo”,“ulìu” per “ulivo” o “s’ciau” per “schiavo”) ed anche nel dialetto sloveno di alcuni paesi del Carso triestino. Inoltre, anche in un paesino sperduto come San Martino del Carso, che fa parte del comune di Sagrado, si sono mantenute ancora diverse parole che caratterizzavano e diversificavano questa parlata, in certi tratti, dal friulano così come lo conosciamo. Troviamo, tra gli esempi più interessanti, ad esempio il raro “jata” (“gatta”) qui rimasto a significare - più genericamente - una donna cattiva, una “strega”. Il cosiddetto “Samartinàr”, inoltre, ci dà probabilmente un’idea di quella che doveva essere anche in Bisiacarìa la parlata (che qui però non ha subito significative evoluzioni) nel momento in cui coloni veneti si sono incontrati con gli abitanti di queste zone nei primi anni del Cinquecento. Qui si affiancano, difatti, antiche parole venete come “gesia”, “chiesa” (che appare anche in alcuni documenti nel monfalconese) ad altre di chiara ascendenza friulana.

Secondo queste nuove teorie la Bisiacaria e San Martino del Carso, dunque, potrebbero così diventare l'anello finora mancante di congiunzione tra il friulano aquileiese e le parlate ladine di Trieste e Muggia. Partendo da qui, con la dovuta cautela e sempre sottolineando


Si tratta dunque di una supposta ladinità, come abbiamo fin qui detto, progressivamente rigettata dopo la nota e traumatica separazione da Aquileia, ma che forse renderebbe di certo più comprensibili la presenza di termini così importanti e assolutamente non marginali nel parlato (solo per fare alcuni esempi: "indola" per "dove" - quasi uguale al tergestino -, "gno" per "mio" o “vogi” per “occhi”). Inoltre tutta la



Nella Bisiacaria, invece, si suppone che questo passaggio verso una parlata di tipo veneto, si produsse probabilmente in un’età più tarda, in seguito agli spopolamenti causati dalle armate turche o dalle forse ancor peggiori "Guerre gradiscane", favorito dall'arrivo di famiglie provenenti soprattutto dal Veneto, ma anche da varie



parte fino al Cinquecento, in diversi villaggi veniva impiegato anche un dialetto di tipo sloveno. La toponomastica e l’onomastica dimostrano chiaramente la continuativa presenza in queste zone, sicuramente almeno a partire dal periodo della dominazione longobarda, di popolazioni giunte dall’attuale Slovenia ma anche dalla Croazia e oltre. La scarsità di documenti scritti di una certa estensione però ancora impedisce di definire con esattezza fino a che periodo questo linguaggio fosse



come lingua principale dalle vecchie e nuove genti che poi sarebbero state denominate, nel corso dei secoli, "bisiachi". Il fascino e la particolarità del dialetto bisiàc - ciò che lo distingue da tutte le altre parlate della nostra regione - è dunque dato soprattutto dalla sopravvivenza, al suo interno, delle tracce di questi diversi linguaggi a cui dobbiamo aggiungere, in tempi relativamente più moderni, anche diversi termini di origine francese e, soprattutto, tedesca. Spesso così, in maniera del tutto inconsapevole, gli abitanti del monfalconese hanno quindi continuato ad impiegare fino ai nostri giorni termini altrove scomparsi, a volte, da molti secoli.

Centinaia d'anni fatti d'incontri, anche se forse non sempre facili



Bibliografia dei testi e degli studi principali consultati


BATTISTI C., Ricerche di linguistica veneta, in "Studi Goriziani" volXXX, 1961 pp. 11-84.


BOERIO G. Dizionario del dialetto veneziano (II ed. 1856, rist. anastatica nel 1971).


BOZZI C. L., Sagrado e la sua storia, 1969.


BOZZI C. L., Memorie e cronache del Friuli orientale (1890-1920), 1970, pp. 186-188.


CORBATTO A., Vocabolario della parlata gradese, Edizioni della Laguna, 1995.


CORTELLAZZO M., La parlata gradese, Atti del Seminario "La cultura veneta nel goriziano", Gorizia, Grafica Goriziana ,1993.


COSSAR R. M., Usanze popolari d'un comune della Provincia di Trieste, estratto dall' "Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane", a. XVI, g I-II, 1941.


DE VETTA A., Studi sul dialetto bisiacco con particolare riguardo al lessico, tesi dattiloscritta di Padova, 1952-1953.


DEL MISSIER S., Un dialetto in evoluzione, .in "Il Territorio" n. 8, Monfalcone,1983, pp. 71-82.


DEL MISSIER S. Note sul vocabolario fraseologico del dialetto "bisiàc", in "Bisiacaria", N° 3, Monfalcone 1985.


DOMINI S. -MINIUSSI A. Breve discorso sulla parola "bisiàc", in "Il Territorio", N° 1, Gradisca 1978, pp. 15-23.


DOMINI S., Staranzano. Storia, società e cultura nell’ambiente del territorio monfalconese, ( II edizione), edito a cura della Cassa rurale ed Artigiana di Staranzano, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1987.


DOMINI S., Un poeta in 'bisiàc' tra la fine del Settecento e il primo Ottocento, in "Bisiacaria" 1989, pp. 9-15.


DOMINI S., FULIZIO A., MINIUSSI A., (a cura di), Giordano Vittori (Jambo) nel I anniversario della morte. Biografia commemorativa e scelta di scritti, 1975.


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DORIA M., Friulanismi lessicali nel dialetto bisiacco in "Studi ladini", 1986.


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FRANCESCATO G., Quando il bisiaco si fa vocabolario, in "Il Territorio", N° 15, Monfalcone 1985.


FRAU G., I dialetti del Friuli, Pacini, Udine, Società Filologica Friulana, 1984.


FRAU G., Vocabolario fraseologico del dialetto "bisiàc" (recensione), in "Studi Goriziani", vol. LXIII, Gorizia 1986.


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MARINUCCI M - DEL BELLO F., Il vocabolario <<bisiàc>>. Un contributo di straordinario interesse per la nostra storia, .in <<Il Territorio>> n. 14, Monfalcone,1985, pp. 89 - 91.


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MINIUSSI P. M. Per una definizione di identità. Il II congresso dell'Associazione culturale bisiaca, in "Nuova Iniziativa Isontina" n° 2, 1991, pp. 35-38.


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PELLIS U., Il sonziaco, Trieste 1910-11 (estratto dall'Annuario del Ginnasio di Capodistria).


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PELLIS U., Atlante linguistico italiano, in "Bollettino ALI" I e II, Udine 1933-36, III, Torino 1942.


PUNTIN M., Le seime bisiache ovvero un ricordo di tradizioni contadine slave medievali della terra di Monfalcone in "Il Territorio" n° 13/14, Nuova serie, giugno-dicembre 2000, pp. 57-59.


PUNTIN M., Sclavoni nell'Oltreisonzo medievale, in Slovenia, un vicino da scoprire, SFF, Udine 2003.


PUNTIN M., Toponomastica storica del Territorio di Monfalcone e del comune moderno di Sagrado, Centro Isontino di Ricerca e Documentazione Storica e Sociale "Leopoldo Gasparini", Gorizia 2003. ROSAMANI E., Vocabolario giuliano, Cappelli 1958.


SEMI F., Il dialetto veneto dall'VIII al XX secolo: cento testi storici, Liviana Editrice, Padova, 1988.


STROILI V., Studi sul dialetto bisiacco (Fonetica e morfologia) tesi dattiloscritta di Padova 1952-1953.


ZAMBONI A., Una varietà veneta marginale: il bisiacco, in "Cultura veneta nel goriziano", Atti del Seminario "La cultura veneta nel goriziano", Gorizia, Grafica Goriziana 1993.


ZUDINI D. - DORSI P., Dizionario del dialetto muglisano, Udine, Casamassima Editore, 1981.


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