"Sonetti del giorno di quarzo" di Aldo Nove. A cura di Stefano Vespo

 

Ph. Claudio Orlandi


Il disperato impegno


C’è stato in un sonetto il mondo intero

il suo sfuggirci.

A. Nove





Sonetti del giorno di quarzo,
il libro che contiene 350 sonetti di Aldo Nove, è un resoconto tragico degli ultimi due anni, segnati dall’evento della pandemia. Tragico, ma in un senso diverso da quello che l’opinione pubblica è stata indotta a considerare come tale. Ciò che è tragica è la condizione della poesia e della letteratura in questo momento storico, quando la poesia e la letteratura vogliono porsi il problema dell’impegno e della denuncia. Il libro di Aldo Nove è prima di tutto l’indicazione coraggiosa dell’ultimo modo che rimane alla poesia di farsi protesta, testimonianza; l’ultimo modo in cui si può ancora praticare una scrittura impegnata.

Nei suoi sonetti Aldo Nove compie un’osservazione impietosa del nostro tempo. Un’osservazione dal punto di vista dell’individuo, del singolo essere umano immerso nell’identica “fogna/ di ore in cui ciascuno di noi sogna/ di non esserci dentro”. Perché i condizionamenti della storia penetrano le fibre più sottili di ogni singolo essere umano. Compie quell’osservazione del lento fiume fatto dei pezzi di noi stessi, senza fuggire in un passato ormai improponibile e senza immaginare un futuro, “non essendo dato nessun futuro degno”. È una realtà demistificata, segnata dall’attuazione di un inganno continuo, di cui tutti sono complici, anche lo stesso poeta, che scrive “l’imbarazzo/ di chi correo prova a riabilitarsi/ tardivo in questi versi di rimpiazzo”. Il nostro è un tempo in cui si va avanti “trascinando borse/di pezzi d’opinioni contrastanti/ e contrastanti fedi e desideri/ e mezzi sogni”. Dove la cultura non esiste più, se non come “quella cultura/ridotta a emanazione della tele”.

Gli ultimi due anni, trionfo massimo della crisi di ogni fede, ideologia, linguaggio, sono soltanto l’estremo esito di questa storia. Questi ultimi due anni ci hanno mostrato quanto possa essere violenta e radicale la cancellazione di ogni possibilità di immaginare un’alternativa alla nostra modalità di esistenza. Abbiamo preso coscienza della profondità della finzione, e abbiamo cominciato a dire addio a “ciò che non c’è più/ e si chiamava mondo”. Ciò che non ci sostiene più sono i cardini di quei sistemi di idee che potevano rappresentare l’alternativa, e quindi la direzione di un mutamento, il senso di un futuro, la possibilità stessa di un futuro. Oggi un concetto politico come quello della solidarietà sociale, oppure l’ideale religioso dell’amore, si sono definitivamente dissolti, oppure vengono riproposti soltanto in una forma distorta, piegati ad un uso strumentale per giustificare le iniquità e le vessazioni più atroci da parte del potere tecnologico e finanziario. Proprio questo uso distorto ha rivelato che ormai quei concetti sono irrimediabilmente falsi. “S’aggirano i gatti/ tra le frattaglie dell’ideologia,/ ne smembrano i significati astratti, / ne sbranano i brandelli d’utopia”.

E allora, in nome di che cosa si può oggi denunciare, si può oggi praticare la scrittura dell’impegno? La risposta di Aldo Nove è estrema, disperata, paradossale: è la stessa forma letteraria, la stessa struttura metrica, ereditata dalla tradizione, che contiene al suo interno la possibilità dell’impegno, la possibilità di rendere testimonianza, ovvero la possibilità di poter traghettare la memoria verso un futuro. La forma estremamente compatta e conclusa del sonetto conferisce al verso una violenza epigrammatica, una densità espressiva che sembrano voler sfidare il tempo: la scelta del sonetto esprime appunto l’esigenza morale di conservare memoria, di varcare la soglia del nostro tempo, per un futuro inaudito, inimmaginabile. Questo gesto può compierlo ormai soltanto la forma letteraria: è la forma stessa che contiene questa vocazione, che offre l’unico orizzonte che rende possibile la protesta morale, ovvero l’orizzonte di un tempo futuro. È vero tuttavia che anche di questa possibilità si può dubitare, “perché in questo momento non è dato/ nessun principio in cui l’identità/ s’approssimi a sé stessa”, e quindi si può anche dubitare di scrivere un sonetto, e di realizzare invece un ennesimo falso, e del sonetto mimarne soltanto l’apparenza.

La condizione più lacerante per i poeti oggi è l’impossibilità di rivolgersi ad un futuro, di pensare un destino per l’umanità. A proposito della condizione in cui si trova oggi la parola poetica, Giorgio Agamben scrive che “la parola [dei poeti] deve ora fare i conti con un’assenza di destinatario non episodica, ma per così dire costitutiva. Essa è senza destinatario, cioè senza destino. Ciò si può anche esprimere dicendo, come si fa da più parti, che l’umanità – o almeno quella parte di essa più ricca e potente – è giunta alla fine della sua storia”. Aldo Nove vuole invece rimanere fedele alla domanda posta da Brecht a proposito dei tempi oscuri: “perché i loro poeti hanno taciuto?”. E per rispondere, per trovare un fondamento alla sua risposta, trova nella forma letteraria stessa la possibilità del futuro. La possibilità della forma letteraria di comprimere in un sonetto “il mondo intero” e quindi di salvarlo, di offrirlo allo sguardo del futuro.

È vero che i poeti non possono più immaginare nessun tempo, ma è forse attraverso la forza della tradizione poetica, attraverso le sue forme assolute, che possiamo sbozzare un monumento del nostro tempo per gli occhi che ci giudicheranno.


Stefano Vespo




                                                                      Ph. Dino Ignani

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