DACCI OGGI LA NOSTRA RINUNCIA
QUOTIDIANA
Luca Bresciani, Ogni giorno un cielo
diverso, immagini di Danilo Massi, Lietocolle, 2022.
Lo sguardo che Luca Bresciani getta
sul mondo, rifugge da qualsiasi arricchimento retorico, da qualsiasi virtuosismo
o effetto speciale. Non si inscenano spettacoli o attrazioni equilibriste, ma
si dà risalto ai momenti inavvertiti e ai particolari trascurabili. Il pathos
nasce per contrasto. È una prospettiva raso terra, è una ricerca umile,
materialista, immune alla sovraesposizione e all’inganno ottico. Come scrive
Ivan Crico nell’acuta introduzione, si tratta di testimoniare la solitudine di
un un “transito da una soglia ad un’altra soglia, soglia perpetua di ogni
autentica interrogazione, rendendola comunque in qualche modo riconoscibile e
comune a tutti coloro che daranno il proprio consenso interiore ad ascoltarla.”
Questo tentativo di creare passerelle di comunicazione tra il mistero del
soggettivo e quello dell’universale, riporta alla mente l’opera immensa di Paul
Celan. Ma nel loro essere scarno e nello
stesso tempo riuscire a mettere in risalto, per sottrazione, il punto
nevralgico delle cose, queste scritture mi fanno venire in mente più che
illustri precedenti poetici, la tecnica narrativa di Raymond Carver: sono
piccoli racconti in versi su aspetti trascurabili che diventano fondamentali e
che indicizzano la sofferenza nascosta. Vige in questa raccolta di testi anche
un imprescindibile parametro di giustizia. Nella disposizione dei versi è cercato
un allineamento refrattario a qualsiasi gerarchia: sono liberi, ma è come se
cercassero la stessa misura, in modo che anche graficamente ne risalti
l’eguaglianza. Senza un titolo, senza punteggiatura. Le metafore, invece di
ergersi e darsi vanto, sono come riassorbite dal terreno testuale e le parole
sono intrise di silenzio, in modo che il livello semantico, non puntando al
clamore, riproponga questa necessità di bilanciamento verso il basso. Uomini, cani, yogurt, asfalti, garzette,
pietre, donne, letti, bigattini: uguali in un animismo faticoso, eretti in un
territorio stran(z)iante di alienazione.
Avendo dei veri presupposti
Ora che niente ci distingue
Ora che nessuno ci sceglie
(vv. 5-8)
Questi testi sono post del post,
dispacci inutili delle nostre rassegnazioni, del dopo civiltà, del dopo
coscienza, del dopo umanità: “e ci vorrebbe un libro dei morti/scritto per noi
superstiti”(p. 35, vv. 9-10). Il disastro è senza dubbio consustanziale ad ogni
aspetto del mondo, ma un’accelerazione devastante viene data dallo smottamento
politico dei nostri giorni e dall’avvento della società del controllo di cui
Bresciani è testimone: “Altri pollici dall’altra parte/spacciano le prime
menzogne/mentre le ossa dentro i piatti/spalancano i nostri silenzi”(p. 31, vv.
4-7) L’aria che spira assimila queste omissioni poetiche alle piazze
metafisiche di De Chirico, ma come se al riparo di ogni statua e di ogni caseggiato,
invisibili agli occhi dello spettatore, si consumasse una scena di violenza. Anche
le fotografie di Danilo Massi che fiancheggiano le poesie riprendono testimoni
irriconoscibili o, soprattutto, interni museali, come se il reale non fosse più
attingibile se non in una dimensione secondaria, metalinguistica, di raccolta e
memoria dei reperti rimasti.
L’ultima poesia, come abbiamo già
spiegato, non è una tenda che si chiude, ma che si apre.
Ecco, questo lembo occorrerebbe
sempre afferrarlo in anticipo perché la stoffa tirata non si apre sul vuoto,
come prima, né su una stanza riccamente arredata. Si apre su un monito, sulla
necessità di una premura anteriore, per non dover rendere conto con le parole
dello scempio e del dramma a fatti già avvenuti. Si apre infine su un
territorio riconquistato, in cui l’amore non può essere separato dalla
coscienza.
Vana e inopportuna
è la cura e la parola
dove marciscono le arance
e dove penetra il proiettile
perché il dopo degli eventi
appartiene ai fantasmi
e solo l’anticipo sul dramma
ci dà in amore e coscienza.
Paolo Gera
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