L'ALTRO CIELO DEL MONDO di Ivan Crico - se comporre è tradurre, di Chiara Catapano
L'antro siel del mondo di Ivan Crico (Antologia 1989-2018)
Leggere “L’antro siel del mondo” (L’altro cielo del mondo) di Ivan Crico, mi ha fatto respirare come dopo una profonda apnea. Ho ritrovato qualcosa di difficile, di raro: una stratificazione complessa, un agire della lingua nel linguaggio, che si fa strada animando le cose dentro le parole – e, con un movimento per nulla semplice, agisce anche viceversa. Perché avere coscienza della lingua in cui si scrive non è mai scontato, non rientra nella sfera degli automatismi, anche quando il fluire è spontaneo. Come ho già scritto in altri contesti, la nostra società, malata tra l’altro di “originalità”, non ha però compreso il legame profondo che l’essere originale ha con la tradizione, col DNA della parola in questo caso specifico: “originale” è chi torna all’origine e nomina le cose con parole che le rianimano, mentre le cose a loro volta animano dal di dentro la parola. Riscopre la realtà riscoprendone il linguaggio. Ecco dunque perché è così raro, così difficile trovarsi tra le mani un mondo “originale” come quello che mi si è svelato dalle pagine di “L’antro siel del mondo”.
La
prefazione di Giorgio Agamben – un vero e proprio saggio sulla lingua della
poesia – spiega una parte di ciò che Crico ha compiuto (mentre una parte
rimarrà sempre nascosta, sempre inaccessibile anche al poeta); ed è proprio da
questa piccola perla (dalla prefazione) che, discretamente, sono voluta partire
per legare alcune considerazioni del filosofo a certe intuizioni.
Scrive
Agamben: “(…) Come intendere questa paradossale doppia testualità della poesia
in dialetto? L’ipotesi che intendiamo proporre è che in essa, come nel circolus
vitiosus transductor delle Poesia a Casarsa, emerga alla luce quel
movimento non solo di ciascuna lingua in direzione della ‘pura lingua’ assente,
che, secondo Benjamin, definisce la traduzione, ma anche e innanzitutto
qualcosa che possiamo provvisoriamente rubricare come bilinguismo
costitutivo di ogni autentica intenzione poetica e, forse, di ogni lingua.
Che
cosa avviene nella traduzione? Come Benjamin ha mostrato, una buona traduzione
non si rivolge solo all’inteso comune alle due lingue (in Brot, bread e pane
l’inteso o il denotato è lo stesso), ma anche e innanzitutto al modo di
intenderlo proprio di ciascuna lingua. Ciò significa, se ben si riflette, che
la lingua della traduzione non si rivolge semplicemente all’oggetto inteso
nella lingua da cui traduce, quanto piuttosto al modo in cui esso è inteso. La
lingua della traduzione non si pone in rapporto col mondo direttamente, ma
soltanto attraverso un’altra lingua.
Se
torniamo ora alla nostra ipotesi di un bilinguismo costitutivo in ogni
intenzione poetica e in ogni lingua, una forma particolare di traduzione appare
allora come parte integrante di ogni pratica poetica. Possiamo, cioè, definire
la poesia come quella pratica linguistica che non si riferisce immediatamente
all’inteso della lingua che usa, ma all’inteso di un’altra lingua, che non è
però esterna, ma interna ad essa. Scrivere poesia significa tra-durre una
lingua in un’altra, che sta, però, dentro la prima, come una irrinunciabile
tensione polare, senza la quale la lingua muore. Quest’altra lingua, questa
tensione polare è la lingua della poesia.
Si
capisce allora cosa poteva intendere Pasolini, quando scriveva che il dialetto
va inteso come una ‘traduzione ideale’ o una ‘metafora’ dell’italiano (…).”
Crico,
conoscendo il mio lavoro di traduzione poetica dal greco, mi ha parlato del suo
lontano amore per alcuni autori greci, come Kavafis e Seferis, come Ritsos. La
cosa non mi sorprese, alla luce anche di quanto letto più sopra. La lingua
greca, per una sua particolarità storica, continuamente si traduce in se
stessa; lo sviluppo che da epoca tardo antica l’ha portata ad essere ciò che è
oggi, ha prima biforcato il greco in due registri, per poi continuare a
stratificarla internamente, fino a raggiungere (secondo quel che ci racconta
Dag Tessore) quattro strati esistenti sia a livello diacronico che sincronico:
vi è il “greco standard” o demotico comune, parlato e scritto, insegnato a
scuola e usato nei diversi ambiti della comunicazione, che possiede sia un
registro dotto che uno colloquiale; il greco popolare, di uso solamente parlato
(tra cui troviamo lo slang giovanile e le parlate degli anziani nei villaggi);
la katharevousa, sia semplice che dotta, anello di congiunzione tra il greco
antico e moderno, lingua creata sull’attico antico, che veniva insegnata a
scuola fino agli anni ’70, mentre a casa si parlava il demotico; il vecchio
demotico, oggi utile a chi desiderasse vedere i film antecedenti agli anni ’70
o per leggere le opere di letteratura neogreca, dall’XI al XX secolo (Dag
Tessore, in “Grammatica di greco moderno”, Hoepli). Aggiunge Tessore:
“Diversamente dalle grammatiche greche edite in Italia e all’estero, la nostra
trattazione abbraccia (…) non solo il greco moderno standard, ma anche la katharevousa
e il vecchio demotico. Sarebbe infatti strano, per non dire assurdo, che chi
studia seriamente il greco moderno non sia poi in grado di leggere un romanzo
di Kazantzakis, una novella di Papadiamantis o una poesia di Kavafis (…).”
Il
panorama è complesso e non mi voglio addentrare qui in dettagli che
rischierebbero di portarci fuori strada. Il fatto è che tra ciò che Crico mi
aveva raccontato, e ciò che avevo letto nella prefazione al suo libro, riuscivo
a tirare un filo che mi conduceva entro i confini dei miei studi, nel greco e
nel suo stupore; e comprendevo meglio anche quell’amore che Crico mi aveva
raccontato per autori che si erano dati da fare non solo a costruire una
(propria) lingua poetica, ma che avevano continuamente tradotto se stessi, in
un’alchimia di addizioni e sottrazioni, di passaggi stretti che li
traghettavano dal greco al greco.
E’
capitato che Crico mi raccontasse della sua amicizia con l’amato prof. Tino
Sangiglio. Lui, greco di Alessandria, grande conoscitore della poesia greca
moderna, poteva svelare alcuni tranelli in cui si può venire indotti traducendo
Kavafis: dentro il greco kavafiano vi è nascosta un’altra lingua, qualcosa che,
nella parlata di Alessandria, porta le cose a vivere dentro intesi differenti.
Tornando a noi, a “L’antro siel del mondo”, ecco che mi sono suonate familiari
le parole di Crico: “L’italiano non era la mia lingua vera, seppure molto
amata, e quindi tra le cose e i nomi che le definivano si apriva, per me, come
una sorta di abisso incolmabile.” E, riferendosi all’opera di Pasolini, Poesie
a Casarsa: “Il suono di quei termini era tutt’uno con le cose che definivano,
per cui leggevo e, all’istante, vedevo davanti a me rogge, salici, argini, come
in una fotografia incredibilmente nitida.”
Leggendo
queste parole di Crico, mi sono immaginata gli sforzi e le difficoltà degli
scrittori greci – prima quelli residenti fuori patria, come Psyharis e Kavafis,
e poi di altri, come Seferis che portava dentro sé la sua provenienza
microasiatica -; trovarsi impigliati in fitta boscaglia, cercare di aprirsi un
percorso, un approdo. Volevo raccontare a Crico tutto questo, glielo avevo
promesso. Così, ho pensato di provare a scriverlo perché rimanesse un segno, un
punto di partenza per altre conversazioni.
C’è
poi un altro dato. Benché io sia triestina, e la parlata bisiacca non sia la
mia, non posso altresì definirla neppure così lontana dal mio immaginario. Il
confine fisico è a pochi chilometri da qui, mentre quello metafisico è mobile,
fluido. Leggendo le poesie di Crico, ho visto tornare in vita un paesaggio
famigliare, materno: la mia infanzia nel goriziano, i pomeriggi con il fratello
di mia nonna, “le cose” nominate in una lingua che non comprendevo per intera,
ma che disegnava profili poi riconosciuti vibranti di vita nei versi del poeta
di Pieris. Leggevo “L’antro siel del mondo” in treno, tra Trieste e Monfalcone,
la vigilia di Natale: il paesaggio improvvisamente ha iniziato a rispondere ai
suoni, vi si è rispecchiato dentro, è tornato a me e alle pagine che tenevo in
grembo con una nuova precisione, inconfutabile come un assioma.
Questa
precisione del linguaggio risponde, nel poeta, sempre a una ricerca cieca, un
bisogno sconosciuto ma sconvolgente, un richiamo insopprimibile. Quando la
parola inizia a muoversi e a risuonare, qualcosa del percorso compiuto fino a
quel momento rimane per sempre misteriosamente celato dentro la stessa lingua
poetica.
Chiara Catapano
Ivan Crico è nato a Gorizia il 1 novembre 1968. Si dedica allo studio della pittura fin da giovanissimo, laureandosi all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Attualmente insegna all’Accademia di Belle Arti di Udine. Parallelamente all’attività artistica, dal 1992 ha iniziato a collaborare con gli amici poeti Amedeo Giacomini, Gian Mario Villalta, Mario Benedetti e Pierluigi Cappello (con cui ha ideato la collana di poesia la Barca di Babele). Scrive in lingua e nell’arcaico idioma veneto bisiàc di Pieris (GO). Nel 2019 per Quodlibet, su invito di Giorgio Agamben, ha curato la traduzione poetica dell’opera di Pier Paolo Pasolini I Turcs tal Friùl. Nel 2019 è uscita l’antologia dell’opera edita (1989-2018) L’antro siel del mondo (LietoColle – Fondazione Pordenonelegge) a cura di Elenio Cicchini e Nicoletta di Vita, con introduzione di Giorgio Agamben, nella collana Gialla Orocurata da Augusto Pivanti. Della sua poesia – pubblicata su importanti riviste italiane e all’estero – si sono occupati diversi studiosi italiani come, tra gli altri, Giorgio Agamben, Antonella Anedda, Mario Benedetti, Franco Brevini, Manuel Cohen, Milo De Angelis, Gianni D’Elia, Franco Loi, Giovanni Tesio.
Commenti
Posta un commento