PERCHÉ I POETI? di PAOLO BECCHI

L'articolo che pubblichiamo è la trascrizione integrale dell 'intervento di Paolo Becchi al convegno "Fissando in volto il gelo-la pretesa di escludere, la volontà di riunire:la violazione dei diritti costituzionali e le nuove realtà dissidenti." Il convegno si è svolto nel Salone di Rappresentanza di Palazzo Tursi, a Genova, il 14 giugno 2023.



Wozu Dichter in dürftiger Zeit, “perché i poeti in tempi di privazione”, si domandava già Hölderlin e con lui Heidegger nel celebre commento. L'aggettivo dürftig (“povertà”, “carenza”, o meglio ancora “privazione”) che qualifica il tempo cosa significa? Di che cosa gli uomini sono privati o si sono privati? E il tempo di Hölderlin è ancora il nostro tempo? E cosa qualifica il nostro tempo? Se pensate che io possa rispondere a tutte queste domande vi sbagliate di grosso, ma oggi ancor prima di avere risposte, dobbiamo essere in grado di porci le giuste domande.

Per Hölderlin era “caduta la sera” nel mondo e la sua epoca - già la sua epoca - era caratterizzata dall'assenza di Dio, dalla sua mancanza. Ma questa mancanza era ancora nel suo tempo, sentita come mancanza. Oggi non solo non siamo più in grado di riconoscere quella mancanza come mancanza, ma addirittura abbiamo dimenticato di essere l'immagine di quella mancanza, di essere ciò che siamo, immagine di Dio. Non solo non crediamo più in Dio, ma abbiamo anche cessato di credere nell'uomo. 


Ecco perché abbiamo bisogno dei poeti, oggi come allora, oggi più di allora, perché anche il nostro tempo è tempo di privazione. Siamo stati privati di molti diritti e di molte libertà negli ultimi anni a causa di una emergenza sanitaria che ci ha costretti a vivere per mesi confinati nelle nostre abitazioni e a morire isolati senza neppure una parola di conforto. Questo spiega perché proprio i poeti non potevano far mancare la loro voce, una pluralità di voci, nel nostro tempo, “fissando in volto il gelo” - il titolo del libro di poesie pubblicato da Terra d’ ulivi, che qui presento - e scandendo con le parole della poesia gli eventi che si sono susseguiti nel corso della pandemia.


Anche se la raccolta di poesie è suddivisa in più sezioni, dal lockdown al green pass, dal super green pass agli scenari futuri, uno mi sembra il passaggio essenziale: quello dallo spazio chiuso allo spazio aperto.  Mi spiego. Lo spazio chiuso è quello del confinamento e della sorveglianza, delle regole minuziose da osservare in quello spazio. “È l'orario giusto per uscire?” “L'autocertificazione sarà corretta?” “Non mi sono forse spostato troppo dal raggio di movimento che mi era consentito? “ “Il mio modo di camminare sarà considerato una passeggiata (vietata) o una corsetta (concessa)?” “Perdiana, non posso prendere il bus perché ho dimenticato la mascherina!”. Lo spazio chiuso è lo spazio della casa trasformato in una sorta di arresti domiciliari con qualche concessione in più. Questa è stata la prima fase della pandemia scandita dal confinamento, dal distanziamento, dal rito pomeridiano del numero dei morti pubblicato sui giornali on line e mostrato in televisione. 


C'era però voglia di reagire: “la disobbedienza corre sul fiume/ e tra i petali di un fiore aperto al sole d’aprile, / i poeti corrono” così Stefania di Lino, e Claudio Buttura aggiunge “il cuore non teme /clausure fra i muri di casa, / né la boria dei cesari/potrà mai imporci/ l'eclisse del sole”.  Alla boria dei cesari si potrebbe aggiungere quella dei dotti di vichiana memoria, i virologi della televisione e gli psicanalisti da talk show. C'è anche sconforto, senso di impotenza di fronte alla morte di un ragazzo lasciato solo, ma quanti sono i vecchi che sono morti “senza una mano calda/ sopra il capo”? (Anna Leone). E qui grandi sono anche le colpe della religione: “non c'è più l'acqua nelle chiese” (Carlo Dardanello). Persino la religione si è piegata al potere, accettando il divieto dei funerali e lasciando i moribondi morire in ospedale privi di qualsiasi conforto religioso.  Non possiamo dimenticare tutto questo. 


 Ma non si poteva lungo restare chiusi in casa per sempre, ed ecco allora prospettarsi una via d'uscita, ma il prezzo da pagare è alto, sempre più alto - tampone- green pass- green pass rafforzato - obbligo del vaccino-, e alla fine diventa insostenibile.  Eppure, per molti il vaccino viene percepito come una sorta di liberazione, con esso ci si può di nuovo muovere liberamente all'aria aperta e si dice “in sicurezza”. Ma ti devi sottoporre al rito espiatorio dell’inoculazione che ti rende di nuovo libero. Col lasciapassare puoi fare tutto quello che facevi prima, ma con una piccola differenza rispetto a prima. Se vuoi essere libero devi accettare il timbro non sulla carta d'identità, ma sul tuo braccio. Non basta più la mascherina ci vuole la punturina.  


È il passaggio dalla società della sorveglianza negli spazi chiusi, alla società del controllo negli spazi aperti.  C'è chi cerca la fuga: “i cuori ribelli se ne vanno … varcare il confine e respirare” (Antonella Barina). C’è chi ricordando il giorno più nero, quello della sospensione dal lavoro se privi di vaccino, lo descrive come un lutto nazionale: “è morto il diritto, / il diritto di vivere, /il diritto di scegliere” (Emilia Otello).  Ma i poeti non sono disposti ad accettare “il baratto” (Anna Dari) della propria libertà col “vaccino ‘ngannatore “(Piero Nissim).  E accettano l'isolamento, l’infelicità, ma restano liberi nel tempo della privazione estrema. I poeti ci aiutano a ricordare questa privazione, a distaccarci dalle ”inascoltabili chiacchiere sfinenti” (Simonetta Silvestri Raggi ) di scienziati e  politici che da ligi funzionari dell'ordine globale nascondono ciò a cui è servita  prima l'emergenza sanitaria e ora l'emergenza bellica, vale a dire il controllo della vita attraverso l'im- posizione, il Ge-stell della tecnica, avrebbe detto Heidegger, la nascita di un nuovo ordine capitalistico post liberale, avrebbe detto un allievo di Marx. Anche nel nostro tempo il poeta si chiede: “chi può limitare/ la tecnica?  In nome /di chi e di che cosa? Stiamo / cominciando a vedere i concreti/ effetti del pericolo/ grandissimo in cui già siamo” (Antonio Sansone).


In questa epoca tardo capitalistica, tecno-capitalistica, l'uomo stesso diventa materiale, il suo corpo oggetto di sperimentazione, come abbiamo visto con la vaccinazione forzata. Con la pandemia e la guerra si fa strada un nuovo modello di società basato sul controllo capillare della popolazione. L'utopia liberale e socialdemocratica e il tipo di società dei consumi ad esso funzionale stanno per finire e con essa pure il lavoro è destinato a trasformarsi radicalmente.


 Stiamo entrando nella società della carestia dove ci attendono nuove forme di privazione. Il tempo della povertà diventa sempre più povero, estremo. Dalla pandemia alla guerra e alla carestia. Sta morendo un mondo, ma lo stesso “sistema” che lo ha retto conta di poter rinascere a nuova vita assumendo nuove forme. Ecco il green, ed ecco perché il pass doveva essere green.


Il poeta però non si occupa di dottrine, non fa neppure della filosofia, ma si mette esistenzialmente in gioco e mette in gioco anche noi che la ascoltiamo. Sa che sarà scambiato per folle, ma la follia in fondo, come per Hölderlin, è qualcosa a cui non ci si può sottrarre, quando si è in radicale disaccordo con il modo di vivere e di pensare del proprio tempo.  E tuttavia il poeta si getta nel pericolo perché sa che “dove c'è il pericolo cresce anche ciò che salva” (wo aber Gefahr ist, wächst Das Rettende auch). Ciò che salva cresce dunque attraversando l’ostacolo, non aggirandolo. Ma come potrà crescere qualcosa nel deserto del nichilismo? Questo il problema. Ma il poeta spera e continua a sperare che una nuova storia sia possibile e che potremmo scriverla insieme: “In nome della Vita/ dell'Amore /del Discernimento/ Lasciamo che sia/ Lasciamo che sia/ Sarà Guarigione/ Sarà poesia” (Maresa Elia). Questo è il dono prezioso che ci hanno lasciato i poeti.

Commenti

Post popolari in questo blog

MANIFESTO E FIRMATARI

“La tua totale e nobile avversione al green pass”. Ricordando Vitaliano Trevisan